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Paul Ricoeur: Della interpretazione. Saggio su Freud. Breve sintesi dell'opera e citazione del testo.

 

Ricoeur

Paul Ricoeur, in questa opera del 1965, si confronta con il pensiero di Freud per riflettere sul rapporto tra ermeneutica (l’arte dell’interpretazione) e psicoanalisi.

L’autore mostra come Freud abbia inaugurato un nuovo modo di intendere i simboli, i sogni e i sintomi, aprendo una via diversa sia dalla filosofia della coscienza sia dalla pura scienza oggettiva.

Ricoeur parla di un “conflitto delle interpretazioni”: da una parte l’ermeneutica della fiducia (che vede nei simboli una rivelazione di senso), dall’altra l’ermeneutica del sospetto (di Marx, Nietzsche e Freud), che interpreta i simboli come maschere da smascherare.

Freud, in questo quadro, è al centro di una tensione: la psicoanalisi non è solo scienza medica, ma anche un metodo interpretativo che ci obbliga a rivedere i concetti di soggetto, desiderio e inconscio.

L’opera diventa così un ponte tra filosofia e psicoanalisi: la riflessione filosofica, secondo Ricoeur, non può più limitarsi alla coscienza immediata, ma deve passare attraverso i simboli, il linguaggio e le interpretazioni che svelano e insieme nascondono il senso dell’esperienza umana.

2. Il ricorso della riflessione al simbolo

Quando affermiamo che la filosofia è riflessione, intendiamo sicuramente dire riflessione su se stessa. Ma che cosa significa «sé»? Sappiamo dirlo meglio di quanto non comprendiamo i termini simbolo e interpretazione? Certo, lo sappiamo, ma questo nostro sapere è astratto, vuoto e vano. Stendiamo dunque innanzitutto il bilancio di questa vana certezza. Sarà forse la simbolica che salverà la riflessione dalla sua va-

nità nello stesso momento in cui la riflessione fornirà la struttura ricettiva di ogni conflitto ermeneutico. Che cosa significa dunque «riflessione»? «Che cosa significa il “sé” della riflessione su se stessa?»

Riconosco a questo punto che la posizione del «sé» è la prima verità per il filosofo posto nel cuore di quella ampia tradizione della filosofia moderna che inizia con Cartesio e si sviluppa con Kant, Fichte e la corrente riflessiva della filosofia europea. Per questa tradizione, che consideriamo come un tutto prima di contrapporne i principali rappresentanti, la posizione del «sé» è una verità che si pone da sé; non può essere né verificata, né dedotta, è insieme la posizione di un essere e di un atto, di una esistenza e di una operazione di pensiero: io sono, io penso; esistere, per me, è pensare, esisto in quanto penso; giacché questa verità non può essere verificata come un fatto, né dedotta come una conclusione, deve porsi nella riflessione; la sua autoposizione è riflessione; questa prima verità Fichte la chiamava il giudizio tetico. Questo è il nostro punto di partenza filosofico.

Ma questo primo riferimento della riflessione alla posizione del «sé», in quanto esistente e pensante, non basta a caratterizzare la riflessione. In particolare, ci sfugge ancora il perché la riflessione richieda un lavoro di decifrazione, una esegesi e una scienza dell’esegesi o ermeneutica, e ancora meno il perché questa decifrazione debba essere o una psicoanalisi, o una fenomenologia del sacro. Questo punto non può essere compreso finché la riflessione appare come un ritorno alla pretesa evidenza della coscienza immediata, è necessario che introduciamo un secondo aspetto della riflessione, che si enuncia nel modo seguente: riflessione non è intuizione, o, in termini positivi, la riflessione è lo sforzo per riaffermare l’Ego dell’Ego colto nello specchio dei suoi oggetti, delle sue opere e infine dei suoi atti. Orbene, per quale motivo la posizione dell’Ego dev’essere riaffermata attraverso i suoi atti? Precisamente perché non è data né in una evidenza psicologica, né in una intuizione intellettuale, né in una visione mistica. Una filosofia riflessiva è il contrario di una filosofia dell’immediato. La prima verità – io sono, io penso – resta tanto astratta e vuota quanto invincibile; ad essa è necessario essere «mediata» dalle rappresentazioni, azioni, opere, istitu-

zioni, monumenti, che la oggettivano; è in questi oggetti, nel senso più vasto della parola, che l’Ego deve perdersi e trovarsi. In certa misura paradossalmente, possiamo dire che una filosofia della riflessione non è una filosofia della coscienza, se per coscienza intendiamo la coscienza immediata di se stessi. La coscienza, diremo poi, è un fine, ma lo è in quanto non è un dato... Certo, di me stesso e dei miei atti io ho una appercezione, e questa appercezione è una specie di evidenza; Cartesio non può essere spossessato di questa incontestabile proposizione: non posso dubitare di me stesso senza percepire che dubito. Ma che cosa significa questa appercezione? una certezza, indubbiamente, ma una certezza priva di verità; come Malebranche, contro Cartesio, ha perfettamente capito, questo immediato cogliere è solo un sentimento e non un’idea. Se l’idea è luce e visione, non vi sono né visione, né luce nell’appercezione; io sento solo che esisto e penso; sento che sono desto, questa è l’appercezione. In linguaggio kantiano, una appercezione dell’Ego può accompagnare tutte le mie rappresentazioni, ma questa appercezione non è conoscenza di se stesso, non può essere trasformata in una intuizione su di un’anima sostanziale; la critica definitiva da Kant rivolta a ogni «psicologia razionale» ha definitivamente separato la riflessione da ogni pretesa conoscenza di sé.

Questa seconda tesi, che la riflessione non è l’intuizione, ci permette di scorgere il posto dell’interpretazione nella conoscenza di se stessi; posto designato «in negativo» dalla differenza stessa tra riflessione e intuizione.

📖 Riferimento bibliografico:

Paul Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, trad. di Emilio Renzi, Milano, Il Saggiatore.


Paul Ricoeur, in this 1965 work, engages with Freud’s thought to reflect on the relationship between hermeneutics (the art of interpretation) and psychoanalysis.

The author shows how Freud inaugurated a new way of understanding symbols, dreams, and symptoms, opening a path distinct both from the philosophy of consciousness and from pure objective science.

Ricoeur speaks of a “conflict of interpretations”: on the one hand, the hermeneutics of trust (which sees in symbols a revelation of meaning); on the other hand, the hermeneutics of suspicion (of Marx, Nietzsche, and Freud), which interprets symbols as masks to be unmasked.

Freud, in this framework, is at the center of a tension: psychoanalysis is not only medical science, but also an interpretive method that forces us to reconsider the concepts of subject, desire, and the unconscious.

The work thus becomes a bridge between philosophy and psychoanalysis: philosophical reflection, according to Ricoeur, can no longer be limited to immediate consciousness, but must pass through symbols, language, and interpretations that both reveal and conceal the meaning of human experience.


2. The Recourse of Reflection to the Symbol

When we affirm that philosophy is reflection, we surely mean reflection upon itself. But what does “self” mean? Do we know how to say it any better than we understand the terms symbol and interpretation? Certainly, we know it, but this knowledge of ours is abstract, empty, and vain. Let us therefore first take stock of this vain certainty. Perhaps it will be symbolism that will save reflection from its va-

nity, at the very moment when reflection provides the receptive structure of every hermeneutical conflict. What, then, does “reflection” mean? What does the “self” of reflection upon itself mean?

At this point, I recognize that the position of the “self” is the first truth for the philosopher placed at the heart of that broad tradition of modern philosophy that begins with Descartes and develops with Kant, Fichte, and the reflective current of European philosophy. For this tradition, which we consider as a whole before contrasting its main representatives, the position of the “self” is a truth that posits itself; it can neither be verified nor deduced, but is at once the position of a being and of an act, of an existence and of an operation of thought: I am, I think; to exist, for me, is to think, I exist insofar as I think; since this truth can neither be verified as a fact nor deduced as a conclusion, it must be posited in reflection; its self-positioning is reflection; this first truth Fichte called the thetic judgment. This is our philosophical starting point.

But this first reference of reflection to the position of the “self,” as existing and thinking, is not enough to characterize reflection. In particular, we still fail to grasp why reflection requires a work of deciphering, an exegesis and a science of exegesis or hermeneutics, and even less why this deciphering should be either a psychoanalysis or a phenomenology of the sacred. This point cannot be understood as long as reflection appears as a return to the supposed evidence of immediate consciousness. It is necessary to introduce a second aspect of reflection, which is expressed in the following way: reflection is not intuition, or, in positive terms, reflection is the effort to reaffirm the Ego of the Ego as grasped in the mirror of its objects, its works, and finally its acts. Now, for what reason must the position of the Ego be reaffirmed through its acts? Precisely because it is not given either in psychological evidence, or in intellectual intuition, or in mystical vision. A reflective philosophy is the opposite of a philosophy of the immediate. The first truth—I am, I think—remains as abstract and empty as it is invincible; it must be “mediated” by representations, actions, works, insti-

tutions, monuments, that objectify it; it is in these objects, in the broadest sense of the word, that the Ego must lose itself and find itself. In a certain paradoxical sense, we can say that a philosophy of reflection is not a philosophy of consciousness, if by consciousness we mean immediate consciousness of oneself. Consciousness, we will say later, is an end, but it is so insofar as it is not a given... Certainly, of myself and of my acts I have an apperception, and this apperception is a kind of evidence; Descartes cannot be dispossessed of this incontestable proposition: I cannot doubt myself without perceiving that I doubt. But what does this apperception mean? A certainty, undoubtedly, but a certainty without truth; as Malebranche, against Descartes, perfectly understood, this immediate grasping is only a feeling and not an idea. If the idea is light and vision, there is neither vision nor light in apperception; I only feel that I exist and think; I feel that I am awake, this is apperception. In Kantian language, an apperception of the Ego can accompany all my representations, but this apperception is not knowledge of oneself, it cannot be transformed into an intuition of a substantial soul; Kant’s definitive critique aimed at any “rational psychology” has definitively separated reflection from any pretension to knowledge of the self.

This second thesis—that reflection is not intuition—allows us to discern the place of interpretation in the knowledge of oneself; a place designated “negatively” by the very difference between reflection and intuition.


📖 Bibliographic reference:

Paul Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, trans. by Emilio Renzi, Milan, Il Saggiatore. 

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