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Jaques Derrida: Resistenze sul concetto di analisi

Perché e come questa parola (resistenza)  che risuonò dapprima nel mio desiderio e nella mia immaginazione come la più bella parola della politica e della storia di questo paese, perché questa parola carica di tutto il pathos della mia nostalgia, come se ciò che a nessun costo avrei voluto perdere fosse stato di fare saltare dei treni, dei tanks e degli stati maggiori tra il 1940 e il 1945, perché questa parola ha cominciato ad attrarre verso sé, come una calamita, tanti altri significati, virtù, possibilità semantiche o disseminali? Vi sto per dire quali, anche se non posso scoprire il segreto della mia nostalgia inconsolabile –che resta quindi da analizzare o che resiste all’analisi, un po’come l’ombelico di un sogno. Perché ho sempre sognato la resistenza? E perché ci si dovrebbe preoccupare qui di un ombelico [ombilic]? Tutto sembra annunciare, ma non preoccupatevi troppo, una conferenza sulla parola «resistenza», uno sguardo compiaciuto e narcisista [nombrilique] su una parola molto francese, sul suo radicamento nella storia di questo paese e, peggio, sul mio amore confessato per la parola e forse per la cosa –o sulla mia resistenza all’analisi. Non prometto di non cedere in nulla alla tentazione, ma cercherò, strada facendo, di suggerire altre cose: quanto più possibile poco idiomatiche, esse risponderanno, spero, sia al titolo, quindi al contratto di questo colloquio, al concetto generale di analisi, sia, prima di tutto, alla bella conferenza di Miguel Giusti. Ripeto quindi pressappoco la mia domanda: perché sognare la resistenza?

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