Nel caso però di una discussione filosofica occorre mettere da parte la reputazione dell'oratore e badare alla sostanza di ciò che egli dica. Come in guerra, infatti, anche in un dibattito ci sono molte cose superflue, da cui non ci si deve lasciare influenzare: l'intonazione della voce, lo sguardo accigliato, la canizie, l'autoelogio. Ma bisogna guardarsi soprattutto dagli applausi, dalle esclamazioni e dai sobbalzi del pubblico, che possono influenzare specialmente i giovani e i profani disorientandoli e trascinandoli via come fuscelli nella corrente di un fiume. E l'inganno può celarsi anche nello stile, allorché col suo carezzevole e copioso fluire scavalca l'essenza del discorso, gonfiandosi e impreziosendosi a dismisura. Come molti degli errori commessi da chi canta al suono del flauto sfuggono ai profani, così le ampollosità e le ridondanze contenute in un discorso abbagliano gli ascoltatori impedendogli di afferrare i concetti. A questo proposito si narra che Melanzio, richiesto del suo parere su una tragedia di Diogene, rispose di non essere stato in grado di vederla perché era oscurata dalle troppe parole. Così fanno la maggior parte dei sofisti che nelle loro discussioni filosofiche ed esercitazioni oratorie non solo manipolano le parole per nascondere il vuoto dei loro pensieri, ma modulano la voce con certi accorgimenti armonici e melodiosi riescono a mandare in estasi gli ascoltatori, dispensando un piacere vano e ricevendone in cambio una fama ancora più vana [...].
Plutarco L'arte di ascoltare
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