I diversi tentativi di correggere le disfunzioni della libera concorrenza instaurando una giustizia utilitaristica o di uscire dalla semplice regola dell’interesse individuale avevano urtato contro difficoltà gravissime. La scuola economica di Cambrdge, soprattutto con Pigou, aveva tentato di dar sostanza al programma utilitaristico, identificando una specie di «calcolo sociale», da contrapporre al puro calcolo economico e da impiegare nelle situazioni lontane dall’equilibrio, nelle quali può intervenire un’apposita politica economica, capace di migliorare in modo stabile la condizione dei più poveri. Per formulare questo programma era stato impiegato il linguaggio utilitaristico, contrapponendo il calcolo del prodotto sociale a quello del prodotto commerciale, tenendo cioè conto delle sofisticazioni degli attori sociali. Questa posizione però presupponeva la possibilità di misurare esattamente le soddisfazioni, cioè una teoria almeno tanto potente quanto l’edonismo che la tradizione attribuiva a Bentham, e quel calcolo dei piaceri, che forse era dovuto soprattutto a Dumont. Se si abbandonava questa posizione, c’era sì la possibilità di migliorare una situazione attribuendo risorse ad una sezione della società, ma non era affatto detto che proprio ai poveri dovessero essere imputate le risorse aggiuntive, e comunque si poteva correre il rischio di far crescere il benessere collettivo facendo crescere il benessere di un gruppo, ma facendo diminuire quello di un altro. In queste condizioni non sarebbe stato facile calcolare se il conto totale sarebbe stato positivo o negativo. L’unico criterio certo sarebbe stato quello offerto da Pareto: un vero miglioramento si ha se qualcuno migliora e nessuno peggiora.
C. A. Viano Teorie etiche contemporanee
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