Ai nostri occhi, c’è invero un’eccezione in questo quadro stagnante, ed è costituita dagli stoici, con il loro profondo radicamento nella società romana, da Seneca a Marco Aurelio: ma si tratta, appunto, di stoici latini, senatori o imperatori ma non filosofi di professione, che vengono perciò ignorati dall’elaborazione e dal dibattito delle scuole ufficiali, e greche, di filosofia.
Queste conoscono invece verità per così dire subliminali, che consistono in una diffusa permeabilità di linguaggi, in una progressiva assimilazione concettuale, inevitabili, del resto, dopo tanti secoli di confronto e di discussione. Così accade che un platonico come Plutarco adotti la dottrina peripatetica della «misura nelle passioni» (metriopatheia), al pari di Alcinoo, autore di un manuale di filosofia platonica, il Didaskalikos. Quest’ultimo riecheggia dalla tradizione platonica (mediata nel I secolo a. C. da Eudoro) il tema del «farsi simile a Dio» (181, 16.35) come fine della vita; ma il suo linguaggio è più vicino a quello dei capitoli finali dell’Etica eudemia che a quello del Fedone. A proposito di questo periodo, Domini ha parlato giustamente di «medioplatonosmo aristotelizzante». La situazione non è diversa sul versante aristotelico, che pure raggiunge, con Alessandro di Afrodisia, livelli di alta qualità intellettuale. In polemica contro il fatalismo stoico, Alessandro riattiva i temi centrali dell’Etica nicomachea, di cui forse compose un commento (cfr. Comm. Top. P. 187); al tempo stesso elementi platonici non sono estranei al suo tentativo di risolvere le difficoltà della dottrina aristotelica sull’anima.
Nonostante questi fenomeni di permeabilità sotterranea, e nonostante selezioni progressivamente intervenute nell’ambito della tradizione del platonismo, che inevitabilmente ne pongono in secondo piano la valenza politica per accentuarne quella trascendente e teologizzante, l’etica delle scuole del II secolo presenta un aspetto prevalentemente di immobilità e di stagnazione. Le virtù, i vizi, le passioni, i valori sono quelli di sempre: la relativa costanza del quadro antropologico dell’uomo antico viene duplicata, e irrigidita, dal carattere ripetitivo dei dibattiti di scuola. Questa scolastica dà ormai la netta impressione che in essa non siano più in questione i problemi della vita e delle sue scelte di valore, per l’uomo in generale o anche solo per l’intellettuale filosofico, ma soltanto il primato e la persistenza delle tradizioni.
Proprio in questo periodo, del resto, esse vengono istituzionalizzate mediante la fondazione, nelle principali città dell’impero, di cattedre ufficiali di filosofia.
Vegetti L’etica degli antichi
Queste conoscono invece verità per così dire subliminali, che consistono in una diffusa permeabilità di linguaggi, in una progressiva assimilazione concettuale, inevitabili, del resto, dopo tanti secoli di confronto e di discussione. Così accade che un platonico come Plutarco adotti la dottrina peripatetica della «misura nelle passioni» (metriopatheia), al pari di Alcinoo, autore di un manuale di filosofia platonica, il Didaskalikos. Quest’ultimo riecheggia dalla tradizione platonica (mediata nel I secolo a. C. da Eudoro) il tema del «farsi simile a Dio» (181, 16.35) come fine della vita; ma il suo linguaggio è più vicino a quello dei capitoli finali dell’Etica eudemia che a quello del Fedone. A proposito di questo periodo, Domini ha parlato giustamente di «medioplatonosmo aristotelizzante». La situazione non è diversa sul versante aristotelico, che pure raggiunge, con Alessandro di Afrodisia, livelli di alta qualità intellettuale. In polemica contro il fatalismo stoico, Alessandro riattiva i temi centrali dell’Etica nicomachea, di cui forse compose un commento (cfr. Comm. Top. P. 187); al tempo stesso elementi platonici non sono estranei al suo tentativo di risolvere le difficoltà della dottrina aristotelica sull’anima.
Nonostante questi fenomeni di permeabilità sotterranea, e nonostante selezioni progressivamente intervenute nell’ambito della tradizione del platonismo, che inevitabilmente ne pongono in secondo piano la valenza politica per accentuarne quella trascendente e teologizzante, l’etica delle scuole del II secolo presenta un aspetto prevalentemente di immobilità e di stagnazione. Le virtù, i vizi, le passioni, i valori sono quelli di sempre: la relativa costanza del quadro antropologico dell’uomo antico viene duplicata, e irrigidita, dal carattere ripetitivo dei dibattiti di scuola. Questa scolastica dà ormai la netta impressione che in essa non siano più in questione i problemi della vita e delle sue scelte di valore, per l’uomo in generale o anche solo per l’intellettuale filosofico, ma soltanto il primato e la persistenza delle tradizioni.
Proprio in questo periodo, del resto, esse vengono istituzionalizzate mediante la fondazione, nelle principali città dell’impero, di cattedre ufficiali di filosofia.
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