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IL CAVALIERE INESISTENTE

Ancora confuso era lo stato delle cose nel mondo, nell’evo in cui questa storia si svolge. Non era raro imbattersi in nomi e pensieri e forme e istituzioni cui non corrispondeva nulla di esistente. E d’altra parte il mondo pullulava di oggetti e facoltà e persone che non avevano nome né distinzione dal resto. Era un’epoca in cui la volontà e l’ostinazione d’esserci, di marcare un’impronta, di fare attrito con tutto ciò che c’è, non veniva usata interamente, dato che molti non se ne facevano nulla – per miseria o ignoranza o perché invece tutto riusciva loro bene lo stesso – e quindi una certa quantità ne andava persa nel vuoto. Poteva pure darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé, così diluita, si condensasse, facesse grumo, come l’impercettibile pulviscolo acquoreo si condensa in fiocchi di nuvole, e questo groppo per caso o per istinto, s’imbattesse in un nome e in un casato, come allora ne esistevano spesso di vacanti, in un grado nell’organico militare, in un insieme di mansioni da svolgere e di regole stabilite; e – soprattutto – in un’armatura vuota, ché senza quella, coi tempi che correvano anche un uomo che c’è rischiava di scomparire, figuriamoci uno che non c’è. Così aveva cominciato ad operare Agilulfo dei Guldiverni e a procacciarsi gloria.
Italo Calvino

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Josè Saramago: "L'ira dei miti" da "L'uomo duplicato

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