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Tra Diderot e Seneca, si tratta forse di sapere, in primo luogo, che cosa è la proprietà della “propria vita”; e chi può esserne il “padrone”; e se donare è cosa diversa dal perdere; se “distribuire la propria vita” [donner sa vie en partage] è insomma cosa diversa dal “perdere il proprio tempo”. Perdere il proprio tempo vorrebbe dire perdere il solo bene di cui si ha il diritto di essere avari e gelosi, l’unico e la proprietà, l’unica proprietà che “si potrebbe essere orgogliosi di conservare gelosamente”. Si tratta dunque di pensare il principio stesso della gelosia come passione primitiva della proprietà e come cura del proprio, della propria possibilità, per ciascuno, della sua esistenza. Della sola cosa di cui si può testimoniare. Come se, innanzitutto, si potesse essere – o non essere – gelosi di se stessi, fino a creparne. Ci sarebbe dunque, secondo Seneca, una proprietà, un diritto di proprietà sulla propria vita. Il confine (finis) di questa proprietà sarebbe più essenziale, più originario e più proprio, insomma, di quelli di ogni altro territorio del mondo. Non ci si stupisce mai abbastanza, dice Seneca, di un certo “accecamento dell’intelligenza umana” riguardo a questi confini (fines) e a queste fini. Di quale fine (finis) intendiamo parlare? E perché arriva sempre prima dell’ora? Prematuramente? Immaturamente?
J. Derrida Aporie

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